Mentre
scriviamo, sono in campo le Filippine contro la Croazia. Nelle
Filippine, ancora oggi è un idolo colui che loro definiscono “il
primo filippino in Nba”. Non è proprio filippino, lo era la madre.
Lui è americano. E' Raymond Townsend, che proprio 30 anni fa stava
disputando il precampionato con il Bancoroma.
Così
lo ha descritto Paolo Viberti su Superbasket, in un pezzo di alta scuola dopo la vittoria in
Coppa Intercontinentale:
Prima
di vivere iI giornalismo, mi dedicavo a tutt'altro. Dopo I'Università
avevo intrapreso la carriera di insegnante di lettere. Cominciai con
incarichi saltuari, poi mi sorprese iI desiderio del matrimonio.
Cercai denaro sicuro, mi si offrì l'occasione di entrare in un
quotidiano sportivo come redattore. Accettai, misi da parte iI giusto
ma il matrimonio saltò... Nella mia vita di allora c'era spazio per
lo sport (Ietto e praticato). Dei giornalisti (queIli che oggi sono i
miei colleghi) non sopportavo due cose. La presunzione dl iniziare
ogni eventuale commento al microfono di un quaIsiasi
radio-telecronista con I'enfatico «sul mio giornale ho scritto» e
la volgare tendenza a considerare «amico» il calciatore
intervistato, o il cestista, il nuotatore, fate voi... Parlando di
Raymond Townsend sarei tentato di commettere il doppio peccato che
tanto m'infastidiva anni fa. Vorrei davvero servirmi dell'antipatico
«sul mio giornale ho scritto» o del vanitoso iI mio amico Raymond».
Se non lo faccio è solo per non sconfessare iI mio passato e per non
suscitare antipatie. La realtà, comunque, mi suggerirebbe un
atteggiamento diverso: sono permeabile alle emozioni, mi ritengo
persino un po' ingenuo, volutamente naif. Mi stuzzicano coloro che si
presentano con una personalità particolare, anche se spesso non so
riconoscere forma da contenuto. Raymond Townsend, ad ogni buon conto,
mi ha sufficientemente stupito. AI punto tale, forse, da meritarsi
quell'appellativo simpatico-antipatico di «amico».
C'è
forse un pizzico di velleitarismo in tutto ciò. L'amicizia, lo so
benissimo, è merce rara, coltivata alacremente nei corridoi di un
liceo (o di una scuola qualsiasi...) più che sulle poltrone di un
DC10 International della Varig, diretto magari a Rio de Janeiro.
Eppure, se l'interlocutore si chiama Raymond Townsend, c'è iI
rischio che il mio cinismo vaccinato subisca una scossa, un... vuoto
d'aria metaforico e non. Perché il buon Raymond - o almeno la sua
esistenza, il suo modo di porsi al cospetto del mondo - merita questo
tentennamento, questo cogito. Ancora una volta, iI dubbio è sintomo
di vita...
Townsend
è il sostituto di Wright. Questo, almeno, dicono le guide ufficiaIi
che la Lega ha divulgato a tutte le società e ai mass media.
Un'investitura onerosa, impegnativa, perchè Wright è difficile da
dimenticare, perchè Wright ha fatto la fortuna del Banco. Townsend
lo sa, ma conosce altrettanto bene i dettami fondamentali che stanno
alla base della sua filosofia di vita. Non starò qui a ripetere
quello che già altri hanno detto (è questo un modo carino per
evitare lo sgraziato «sui mio giornale ho scritto»). Townsend
altruista, Townsend teologo,Townsend fervido credente, Townsend
chiamato da Dio, Townsend generoso sino all'annichilimento del
proprio io, Townsend commovente... Vorrei solo proporre alcuni
quadretti del Townsend che conosco io, del Townsend che mi si è
presentato in Brasile in occasione della Coppa Intercontinentale.
Viene dal Brasile, per il calciofilo sarebbe una specie di Pelè del
parquet. E' raro incontrare un americano che ti si fa incontro in
aeroporto – senza averti mai visto prima - per chiederti chi sei,
come stai, perchè fai parte anche tu della comitiva. E' quasi
impossibile, poi - mentre cerchi di mettere insieme frasi sensate in
americano- che questo qualcuno ti interrompa, chiedendoti di parlare
in italiano, perché lui vuole imparare la tua lingua. Nel nostro
mestiere di accalappia notizie molto spesso si è costretti a fare
spallucce al cospetto di personaggi aridi, senza prospettive, privi
di identità particolari. Con Raymond non c'è stato bisogno di
rispolverare antiche retoriche per poter sapere qualcosa di più,
qualcosa magari, di poetico, di sofisticato, di genuino.
II
lirismo di Townsend ci si è presentato come un dono senza tarli,
impacchettato con cura ma semplicemente, persino un po' fragile, da
aprire con cura. Voglio ribadire il mio idealismo e la mia ingenuità:
non saprei riconoscere un angelo da un carnefice se mi si
presentassero con le stesse sembianze. E' questo iI mio limite e la
mia forza. Lo do come postulato della mia esistenza. Townsend per me
è la riprova che vale la pena essere curiosi, mettersi in
discussione, rodersi nel dubbio. Mi pare, con questo, di sprecare
assai meno il mio tempo. Raymond mi parlava della sua vocazione
religiosa, della moglie Sharonrose che dovrà restare ancora per un
anno in California per conseguire la laurea, della figlioletta di due
anni, del suo amore per i cani lupo. Ogni sua frase potrebbe essere
un'aforisma: eppure, non riesco a scorgere nulla di curiale nei suoi
aprocci dialogici.
Mi
dicono che la posizione di Raymond non sia del tutto salda; Bianchini
lo vorrebbe più regista e, magari, meno realizzatore. Può darsi che
Townsend diventi un nuovo re di Roma come è possibile che venga
gettato presto nel dimenticatoio. A me, ricco di sogni, rimarrà
sempre iI ricordo di un uomo (ma sì, di un amico...) che mi parlava
di Dio con la stessa tranquillità con cui ci si potrebbe riferire al
lattaio. Anche in questo, provo a concludere, sta la grandezza del
fragile e indistruttibile Raymond...